Il silenzio complice sui neonati rifiutati

Scritto il 03/11/2025
da Vittorio Feltri

Gentile direttore Feltri,
si leggono sempre più spesso casi di neonati partoriti di nascosto e abbandonati o uccisi nei modi più atroci. Quello della 31enne di Cesena mi ha scossa profondamente. Ma più ancora della madre, mi colpisce la famiglia. Com'è possibile che i genitori non si siano accorti della gravidanza? Siamo davvero sicuri che nessuno sapesse? Che la madre non sapesse nulla? Ha visto la figlia salire dalla cantina con i piedi insanguinati, ha visto le sue vesti sporche, eppure dice di aver creduto che si trattasse di un'infiammazione. Ma davvero dobbiamo crederlo? Secondo me, lo dico con tutto il dolore possibile, i familiari che «non si accorgono» sono spesso complici morali di quel reato. Perché c'è omertà. C'è vergogna. C'è rifiuto. C'è un disprezzo più profondo della stessa ignoranza: quello che ti fa fingere di non sapere, per non affrontare la verità. E qui emerge con chiarezza: quella madre (oggi nonna) ha dichiarato in un'intervista parole orribili, disumane. Ha detto che non voleva diventare nonna così, con un figlio fatto «a c... di cane», parole sue. E non è neppure andata a trovare quel neonato in ospedale. Un rifiuto totale della gravidanza, del parto, del nipote, della realtà stessa. Direttore, com'è possibile che una donna non si accorga che la propria figlia è incinta, anche al nono mese? E quante volte lo abbiamo già sentito? In Calabria, il caso tremendo della donna che ha partorito e ucciso tre neonati, di cui due rinchiusi nell'armadio, e nessuno sapeva nulla. A Reggio Emilia, un altro caso simile. E altri ancora. Davvero tutte queste gravidanze sono passate inosservate? Mi rivolgo a lei perché ho bisogno che qualcuno dica le cose come stanno. Senza ipocrisie.

Con stima,
Daniela Cima

Cara Daniela,
tocchi un nervo scoperto della nostra società. Un nervo che pulsa di dolore, di silenzi, di vergogne e di ipocrisie. La vicenda della donna di Cesena che ha partorito da sola in casa, mentre i parenti erano lì, e ha abbandonato il neonato accanto a un cassonetto non è solo un fatto di cronaca nera, è un grido disperato che rivela il degrado familiare e morale in cui troppi oggi vivono. E hai ragione: è impossibile non accorgersi di una gravidanza e pure di un parto, specie quando si vive sotto lo stesso tetto. E infatti, troppo spesso il problema non è che non si sa, ma che non si vuole sapere, anzi, che non se ne vuole sapere niente. Si distoglie lo sguardo, si tappa il naso, si chiudono gli occhi, si chiude il cuore. In questo caso, addirittura, c'è stato sangue, c'è stata una richiesta d'aiuto (l'ambulanza è stata chiamata due volte), c'è stato un parto avvenuto in casa, con tracce evidenti, la pozza di sangue, i vestiti intrisi di sangue, piedi e gambe sporchi di sangue. E ancora la madre, la nonna, dichiara placidamente che non si era accorta di nulla, con una freddezza e una indifferenza che fanno venire i brividi. E poi ci regala la verità più cruda e oscena: «Non volevo diventare nonna con un figlio fatto a c... di cane». Non credevo alle mie orecchie. Queste parole sono state un pugno allo stomaco, al cuore, alle orecchie. La verità stava tutta lì. Rivelata in un impeto di disprezzo incontenibile. Anzi, sputata.

Questa frase, che non è inventata, ma documentata, è il cuore dell'orrore. È la chiave per capire tutto: la vergogna che ammutolisce, che paralizza, che trasforma le persone in statue di sale. Altro che amore materno e istinto di protezione. Qui c'è rifiuto, disprezzo, negazione della vita. E non è un caso isolato, vero. Abbiamo avuto la giovane di Reggio Calabria che ha ucciso tre neonati e nessuno, in casa, «si era accorto di nulla»; la ragazza che ha seppellito due figli neonati in giardino, uno dato alla luce, ammazzato e messo sotto terra poche ore prima di andare in vacanza. Tutti contengono la stessa narrazione: «Non sapevamo». Il problema non è solo individuale, ma anche familiare, sociale, culturale. E la responsabilità non è soltanto della madre biologica, ma anche di chi vive accanto a lei e finge di non vedere. Per comodità. Parlo dei genitori, dei compagni, poi dei servizi sociali e sanitari, che seguivano la donna di Cesena, dei colleghi di lavoro, degli amici, dei medici di base. Di chi doveva esserci e non c'era. Di chi sapeva e non ha voluto vedere. Di chi ha preferito «farsi i fatti propri». Tu dici bene: in alcune famiglie vige un clima di gelo, di mutismo, di vergogna, in cui la parola «dialogo» è un suono vuoto. In queste famiglie non si parla, si giudica. Non si aiuta, si condanna. Non si ama, si rifiuta.

Il neonato abbandonato a Cesena oggi è vivo per miracolo, eppure già segnato da un rifiuto primario. Nessuno dei suoi familiari è andato a fargli visita in ospedale. Nessuno lo ha preso in braccio. Neanche la nonna. E questo è forse il gesto più atroce di tutti. Io non so se la giustizia penale riuscirà ad accertare responsabilità dirette. Tuttavia, da uomo, da giornalista, da padre, ritengo che non basti affermare «non sapevo» per sentirsi innocenti. In certe circostanze, il non sapere è già una colpa.

Ti ringrazio per la sua lettera, forte e lucida. Continua a indignarti. Anche per chi, come quel neonato, non ha voce.